Osualidi. Osvaldo.
Il nostro cuoco a Kiremba, in Burundi.
Mi piace cucinare e mai, nella mia vita, avrei pensato di avere bisogno di un cuoco. Mai. Fino al giorno in cui mio marito e io siamo arrivati in Burundi.
Marzo 1994, trent’anni fa. Al nostro arrivo a Bujumbura, sede dell’aeroporto e all’epoca capitale del Burundi, Roberto e io fummo accolti da Franco, un volontario italiano – veronese! – che a Kiremba stava costruendo un nuovissimo padiglione per il reparto di Ostetricia e Ginecologia. Durante le tre ore di tragitto in ambulanza*, Franco ci spiegò che, per vivere, avremmo avuto bisogno di un cuoco e, per lo scopo, ci proponeva un tale Osualidi-Osvaldo che già lavorava per lui. Stanca per le ore insonni trascorse sull’aereo e sicura d’avere capito male, esalai un “prego? Cuoco? E perché…?”.
Sempre guidando la cosiddetta ambulanza, Franco mi guardò e mi spiegò che, nel luogo in cui stavamo andando, un cuoco era assolutamente indispensabile per la sopravvivenza e, davanti alla mia espressione allibita, mi chiese se in Italia io mangiassi del pollo.
-Sì, certo – risposi io – noi mangiamo un po’ di tutto: tante verdure, legumi, uova, un po’ di carne, un po’ di pesce. Un po’ di tutto.
-Perfetto. Quindi, dimmi, pensi di essere in grado di trovare, in mezzo alla brousse*, qualcuno disposto a venderti una gallina? A quel punto, dovresti acchiappare la gallina, convincerla a farsi ammazzare e procedere con tutto quel che segue, fino a trasformarla in un pollo arrosto…
-Ho capito. Temo che dovremo proprio assumere Osualidi o, all’italiana, Osvaldo!
E così fu. Per tutta la nostra permanenza in Burundi, Osvaldo cucinò i nostri pranzetti, preparando manioca ed erbe locali, verdure, uova e carne che non ci fecero certo rimpiangere i pasti che consumavamo a Verona. E quanto alle galline… avevano un sapore eccezionale, un sapore che io avevo dimenticato da tempo: il sapore dei polli che Mamma allevava quando ero bambina e che io stessa contribuivo a nutrire con gli avanzi e gli scarti della cucina.
Durante la nostra permanenza a Kiremba, mio Padre venne due volte in visita: una prima volta quando io ero incinta e una seconda volta quando Franco (caspita, quanti Franco ci sono in questa storia: Franco volontario, Franco nostro figlio e Franco figlio di Osvaldo!) aveva circa un anno; in quell’occasione, arrivarono in due: lui e il Papà di Roberto, che pur di conoscere il nipotino aveva vinto la paura dell’aereo!
Anno 1996, secondo viaggio di Papà in Africa. Il giorno stesso del suo arrivo, aprendo il bagaglio, Papà si accorse di non avere portato un paio di scarpe comode per camminare sulle strade dissestate del nostro circondario. Che fare? Ormai, eravamo già rientrati a Kiremba, a 160 chilometri da Bujumbura: impensabile tornare indietro per acquistare un paio di scarpe!
A Kiremba, non c’erano negozi di scarpe, non come li intendiamo noi: le ciabattine infradito portate dalla maggior parte della popolazione si trovavano al mercato, ma di scarpe… manco l’ombra! Non restava che la cittadina di Ngozi, a 30 chilometri. Dopo un’intera mattina trascorsa al mercato a rovistare nelle ceste dei venditori ambulanti, Papà, che aveva un “piedino” numero 45, trovò un paio di scarpe da ginnastica bianche e gialle, neanche troppo brutte, ma… numero 43!
Acquistò quindi queste sole scarpe disponibili e, tornato a Kiremba, ritagliò un bel triangolo da entrambe le tomaie, in modo da consentire agli alluci e alle altre dita di allungarsi a loro agio.
Osvaldo, che aveva seguito tutta l’operazione con grande interesse, fece sparire i due triangoli e nessuno di noi ci pensò più.
Nessuno di noi Abazungo* ci pensò fino a quando gli Abasizi* non se ne tornarono in Europa: a quel punto, Papà lasciò le scarpe reduci dal suo “intervento chirurgico” nel secchiello della spazzatura (secchiello sempre vuoto, praticamente: è incredibile quanto volume non occupano in Africa le inesistenti confezioni vuote, gli involucri, le cartacce e le cartine cui siamo qui abituati…) e io pensai che Osvaldo le avesse eliminate.
…e invece, qualche giorno dopo, un Osvaldo sorridente e orgogliosissimo si presentò al lavoro indossando un paio di calzature assolutamente originali: le scarpe da ginnastica bianche e gialle con il triangolo tagliato da Papà accuratamente ricucito!
Ho recentemente saputo che Osvaldo è deceduto un paio d’anni fa. Mi dispiace tanto, tantissimo: contavo di poterlo un giorno rivedere.
In questi giorni, anche Papà è andato avanti, come dicono gli Alpini.
Sono sicura che, mentre scrivo queste righe, Papà e Osvaldo si stanno dando delle gran manate sulle spalle, sorridendo e ricordando l’episodio nel Linguaggio Universale ch’è proprio di coloro che sono già Oltre.
Ciao, Papà! Ciao, Osvaldo!
*Ambulanza – si trattava, in realtà, di un piccolo pullmino a 9 posti, che veniva usato per le più svariate esigenze dell’ospedale, dal trasporto del materiale da costruzione allo spostamento delle persone, non necessariamente malate. E l’ambulanza, direte voi, dov’era? Né il pullmino-ambulanza né altri mezzi motorizzati avrebbero potuto percorrere le stradine e i sentieri più interni della brousse burundese: i malati che necessitavano di trasporto in ospedale venivano caricati sulla civière – la barella, fatta di fibre naturali intrecciate a mano – e portati in spalla da quattro portantini.
*brousse – termine francese per indicare non solo la “campagna” in senso di “non-città”, ma anche la savana, le zone incolte, piene di sterpaglia.
*Abazungo – persone con la pelle bianca.
*Abasizi – visitatori.
NB: la fotografia che completa questa pubblicazione è di Thiện Hưng ed è tratta da pexels. Trent’anni fa, i cellulari con possibilità di fotografie immediate erano di là da venire e non avemmo la possibilità di fotografare il “capolavoro di chirurgia” del nostro Osualidi-Osvaldo.
Grande insegnamento di vita, questi sono i veri ” green”
Già. Altroché 3 etti di foglietti di plastica per 45 grammi di prosciutto…
Una storia di vita meravigliosa!
Grazie! la vita è del mio Papà è stata, per quanto dura e difficile (nato durante il Ventennio, orfano di padre a 15 anni, emigrato in Svizzera per anni…), una vita all’insegna della POSITIVITA’: una grande lezione di vita per noi figli, per i suoi amatissimi nipoti e, indirettamente, per i tre pronipotini che ha avuto la gioia di conoscere.
Ti segnalo anche un’altra storia pubblicata su questo stesso blog, “L’uomo che regala Conchiglie”, https://www.adamiteresa.it/?s=cercatore+di+conchiglie