5 aprile 1994, ore 23. Il sole è tramontato da un pezzo sul marais di Kiremba, in Burundi, Roberto – mio marito – ed io abbiamo cenato e fatto la nostra passeggiatina serale entro il recinto dell’ospedale. Non ci sono programmi televisivi da vedere, dato che, diversi mesi prima del nostro arrivo, qualcuno ha sparato al ripetitore posizionato sulla collina di fronte: stiamo, quindi, concludendo una partita a scacchi, pensando al lavoro da svolgere l’indomani.
A un tratto, sentiamo bussare alla porta di casa: è una delle Ostetriche del reparto Maternità, che mi chiede di seguirla in ospedale, dove la dottoressa Cornelia sta “medicando” una ragazza.
Cornelia è una collega Tedesca, una chirurga molto in gamba, che ha lavorato a Kiremba per un lungo periodo ed ora, prima di recarsi in Gran Bretagna per un master assolutamente esclusivo, è passata a salutare il fidanzato Franco, che sta ricostruendo un reparto dell’ospedale.
Seguo, quindi, l’Ostetrica Agrippine nella sala operatoria non sterile, dove la dottoressa Cornelia e un Infermiere stanno pulendo i genitali di una donna incinta.
La ragazza – che chiamerò Immaculée – urla frasi in kirundi, lingua per me incomprensibile, ma, un po’ per volta, riesco a ricostruire l’accaduto.
Immaculée ha vent’anni: neo-sposa, è rimasta incinta poche settimane dopo il matrimonio e la gravidanza di è svolta talmente bene che lei non si è mai fatta vedere né al dispensario né alla consultazione prenatale.
Giovane ed in perfetta forma fisica, ha lavorato fino all’ultimo: le doglie, addirittura, sono iniziate mentre stava zappando un campo!
Le “mammane” della Collina l’hanno fatta rientrare a casa e l’hanno seguita durante il travaglio, ma, ad un certo punto, qualcosa ha iniziato ad andar male.
Immaculée ha un bel bacino, con un’apertura più ampia rispetto a tante altre donne della sua razza, ma… qualcosa non va!
Il bambino, di cui si sentono bene i piedini sotto la milza della mamma, non riesce a passare. Per l’infinito periodo di ben sette giorni, le “mammane” tentano l’impossibile: tisane e decotti per Immaculée, massaggi sulla pancia ed erbe infilate nel canale del parto… niente da fare: il piccolo non esce.
A quel punto, la povera Immaculée viene caricata su una barella e portata in ospedale.
Il bambino – ovviamente – è ormai morto da tempo.
Cornelia mi dice che la presentazione è “di testa”, ma che, dato il gonfiore dei tessuti sia della madre che del figlio, non è chiaro “quale” sia la parte della testa che stiamo vedendo. Nemmeno un’ecografia fatta al volo ha permesso di risolvere il dubbio.
Pur essendo laureata da tempo, in Italia, ho visto nascere un solo bambino, mia nipote Sara, e la situazione mi intriga parecchio: la collega Tedesca sta per rientrare in Europa e, domani, potrei ritrovarmi in una situazione analoga…
Chiedo a Cornelia se non è il caso di fare un cesareo: Immaculée è ormai allo stremo delle forze e della sopportazione.
– Assolutamente no – risponde – non è il caso. Come neo-sposa, Immaculée sarà accettata dalla famiglia del marito solamente quando avrà un figlio maschio. Questo bimbo è morto: non appena dimessa dall’ospedale, cercherà immediatamente una nuova gravidanza. Se restasse incinta entro due o tre mesi, i tessuti tagliati dal cesareo potrebbero non reggere. Calcola anche che lei continuerà a lavorare come un mulo…
Nonostante l’episiotomia praticata a regola d’arte dall’Ostetrica Agrippina, non si procede: la ventosa non fa presa e pure il forcipe scivola sui tessuti mollicci dello sfortunato piccolino. Ci proviamo tutti: nulla da fare. Anche quando la piccola testa sembra saldamente acchiappata, qualcosa la blocca.
Ad un certo punto, Cornelia mi guarda e mi dice:
– Spero che tu non debba mai più vedere o, peggio ancora, fare una cosa del genere…
La testolina viene svuotata del suo contenuto e, a quel punto, l’intero corpicino viene estratto. La bambina aveva il capo ruotato di lato e la parte presentata, quella su cui la ventosa non aderiva, era una guancia! Senza un cesareo fatto al momento opportuno, la piccola non aveva alcuna speranza di nascere.
Il liquido amniotico che esce alla fine è giallo e puzzolente, assolutamente infetto. L’utero viene revisionato e la placenta controllata, in modo da non lasciarne qualche pezzetto all’interno.
Immaculée viene disinfettata accuratamente e poi portata nel reparto Maternità.
A quel punto, Cornelia concorda con me che un antibiotico in vena è proprio necessario, ma mi consiglia di aspettare qualche ora: non possiamo introdurre il trattamento e scavalcare il dottor Masabo fino a quel punto.
Masabo, il collega Burundese: come mai non è lì? Perché non era presente in sala operatoria?
– Masabo non è una persona forte – mi dice Cornelia – lui saprebbe anche fare i cesarei e le appendicectomie, ma non riesce ad entrare in sala operatoria. È più forte di lui: è stato obbligato a studiare Medicina… lui non regge: non possiamo chiedergli il coraggio che non ha. Adesso scrivo tutto sul registro del reparto: domani mattina – fra pochissime ore – farai il “giro” con Masabo e, formalmente, sarà lui a prescrivere la terapia, così non si sentirà messo completamente da parte. In fondo, il responsabile dell’ospedale è lui: io sono qui come ospite e tu sei qui per il Laboratorio e per il Centro Trasfusionale…
Me ne vado a casa, chiedendomi se riuscirò a dormire dopo quanto ho appena contribuito a fare. Dormire… non è proprio destino, pare, visto che, poche ore dopo, verso le 6.30, qualcuno bussa alla finestra della camera…
– Ehi!, Roberto! Teresa! Aprite la porta! È successo un disastro…
É la voce di Franco, che, bussando disperatamente, cerca di svegliarci “urlando sottovoce”.
Ovviamente, lo facciamo entrare; è pallido e parte con il suo racconto: Cornelia, che tutte le mattine alle 6 ascolta il notiziario in inglese della BBC, ha sentito che a Kigali, capitale del Ruanda, è esploso l’aereo sul quale si trovavano i Presidenti dei due Paesi, Burundi e Ruanda, appunto. Il cronista si chiedeva “perché” si trovassero sullo stesso aereo ben due Presidenti e metà dei membri dei governi dei due Stati, ma tant’è: è accaduto.
E ora – ovviamente – son tutti morti.
Nell’ottobre dell’anno precedente, l’assassinio del Presidente Burundese Melchior Ndadaye – primo presidente liberamente eletto e primo presidente Hutu – aveva portato alla guerra civile, con violenze atroci ed un numero incalcolabile di morti.
I Barundi ancora si riferiscono al periodo ed al disastro con il termine eufemistico di “les événements”, gli “avvenimenti”, ed impallidiscono al ricordo.
Roberto e io ci guardiamo: da un mese i nostri passaporti sono in capitale e giacciono sulla scrivania di qualche indolente funzionario che dovrebbe apporre il “visto” di soggiorno… Oddio, sta forse per scoppiare una guerra e noi siamo in mezzo alle colline, fra piante di caffè e di banane, senza i nostri documenti!
Franco ci consiglia di raccogliere in fretta qualche abito e un po’ di biancheria e di partire con lui e Cornelia per Bujumbura – la capitale – in modo da recuperare i passaporti e da avere notizie certe sulla situazione.
Che fare?
Partiamo, ovviamente.
Non descriverò il caos dei tre giorni che seguono: alla fine, riusciamo a localizzare i passaporti, staniamo il funzionario che li ha in consegna e, minacciandolo di morte, riusciamo a farceli restituire. Debitamente timbrati.
Per le strade di Bujumbura il traffico è intenso, ma abbastanza ordinato (per quanto possa esserlo in un Paese africano).
Gli uffici – governativi e non – brulicano di impiegati e dirigenti, che si affannano a “mettere in ordine” carte e scartoffie.
Ma tutto questo avviene quasi senza rumore: è una sorta di ronzio, un silenzio “da alveare in fermento”, un terribile “non rumore”, che né il fruscio dei documenti spostati né il motore delle automobili per strada né i bisbigli umani riescono a perforare.
Abbiamo l’impressione che si tratti del fatidico momento di “calma prima della tempesta”.
In Ruanda, invece, è già il caos: l’eccidio è iniziato, ma, a pochi chilometri in linea d’aria, i Barundi, memori – forse – delle uccisioni di pochi mesi prima – sono come paralizzati.
Nessuno – o quasi – sta reagendo male: solo pochi facinorosi cercano “giustizia” e prendono a pretesto la situazione per eliminare parenti e vicini in qualche modo molesti o sgraditi.
Cornelia lascia il Paese, com’era già previsto, e noi torniamo a Kiremba.
È in quell’occasione che scopriamo quanto l’avere un passaporto italiano sia importante: noi Italiani siamo benaccetti e benvoluti; sia la Milizia regolare sia i Ribelli ci considerano “amici”. La gente si fida di noi e non ci ritiene né colonizzatori né sfruttatori.
Lungo i 160 chilometri che separano la capitale dal nostro ospedale, penso ad Immaculée: chissà…
Il viaggio dura un’eternità, fra posti di blocco e militari che controllano, increduli, i nostri documenti e ci chiedono “perché” stiamo andando verso l’interno – e verso l’inferno – invece di salire sul primo aereo in partenza per l’Europa… vaglielo a spiegare, a questi, che un ospedale – e tutto il suo contenuto di umana sofferenza – ci sta aspettando!
Arriviamo e, finalmente!, posso andare dalla “mia” Immaculée.
È un disastro: è stesa in un letto della Matérnité, senza febbre, e si guarda intorno con aria smarrita, con occhi spiritati, ma praticamente privi di quello che da anni ho imparato a chiamare “spirito vitale”.
Setticemia: dalla zona genitale, l’infezione ha invaso il sangue..
La bottiglia di soluzione fisiologica fissata al suo braccio non contiene farmaci, e le Ostetriche mi confermano ciò che in cuor mio temevo: Masabo, in questi tre giorni, è rimasto rintanato in casa, impaurito a morte e incapace di reagire, e non si è mai presentato in ospedale, né ha – ovviamente – mai fatto il “giro” dei malati.
Immaculée non è mai stata vista da lui e nessuno ha pensato di iniziare la terapia proposta da Cornelia e da me…
Una delle Ostetriche mi mostra il risultato di un emocromo eseguito la mattina stessa: i globuli bianchi sono bassissimi…
Setticemia, da germi gram-negativi, verosimilmente. Difficilissima da risolvere, anche in Italia, quando è in fase avanzata.
Lasciati cadere i fogli della cartella clinica, corro verso la Farmacia dell’ospedale, dove afferro una manciata di fiale: ampicillina, gentamicina e cloramfenicolo, il “massimo” possibile a Kiremba.
Preparo l’infusione, sotto gli occhi sbarrati di Immaculée: è troppo tardi – lo sento – ma devo assolutamente farlo. Devo almeno provarci.
Immaculée muore poche ore dopo.
Sono trascorsi 20 anni: quest’anno, in Italia, si è fatto un gran parlare del “genocidio del Ruanda”, ma io mi sto ancora chiedendo “perché” non siano state spese parole per l’analogo disastro avvenuto pochi mesi prima in Burundi.
Da un lato della frontiera, i “buoni” erano di una certa etnia, mentre dall’altra parte, essendoci una ripartizione diversa, si comportavano da “spietati assassini”.
Anime pie o assassini?
Le “etnie” non sono né buone né cattive, come non sono né buone né cattive le nazioni, come non è né positivo né negativo parlare una certa lingua o riconoscersi sotto un certo vessillo.
Le Persone non sono inquadrabili per stereotipi: forse che gli Italiani sono “tutti mafiosi” e i Tedeschi “tutti nazisti”? Se non possiamo dire che tutti i Polacchi sono “tutti simpatici caciaroni” o che i Rumeni sono “tutti ubriaconi attaccabrighe”, magari gli stessi criteri non-classificativi si applicano anche a Tutsi ed Hutu…
Un milione di persone sono morte in Ruanda, nei mesi seguenti l’abbattimento dell’aereo presidenziale, tra l’indifferenza dei Paesi del “Nord del Mondo”, ma, nel mio ricordo, sono tutti “riassunti” nello sguardo disperato di quella sfortunata Mamma, ormai dimenticata da tutti, la “mia” Immaculée.
Foto di Renato Danyi in Pexels
Complimenti per l’articolo..le persone non scompaiono completamente se a distanza di 20 anni c’e ancora qualcuno che le ricorda;adesso questa mamma sfortunata vive anche nei nostri pensieri, in noi che abbiamo condiviso questa storia.
Grazie per averci reso partecipi, Marta
Grazie…