Lavoro come fitoterapeuta nella Verona del XXI secolo, luogo ed epoca in cui l’uso dell’Helleborus niger come fitoterapico è assolutamente vietato!
Helleborus niger. Rosa di Natale.
Un fiore bellissimo, perfetto.
Lo conobbi con il nome di “Rosa di Natale”: ne parlava il mio libro di lettura di IV o V elementare.
C’era un brano che raccontava di un gruppo di ragazzini che aiutava i genitori nella cura dell’orto: ciascuno di loro aveva un proprio angolino dove far crescere un fiore o una pianticella “speciali”, e ognuno si dava un gran da fare per zappettare, concimare, togliere foglioline secche, ragnetti e insetti.
Durante l’estate, ogni bambino aveva avuto il suo momento di gloria ed era stato applaudito quando aveva presentato agli altri la sua “creatura”: qualche zinnia, rose di vari colori, petunie o garofani nani (la Nonna Massimina li chiamava “speranzine”: non ho mai saputo perché li chiamasse così, ma a me è sempre parso un nome bellissimo, un nome pieno di… speranza!).
Per una serie di motivi che il testo non chiariva, uno dei bambini non era riuscito a seminare nulla; ad un certo punto, però verso la fine dell’estate, la mamma l’aveva aiutato a “mettere a dimora” una piantina misteriosa, con delle belle foglie d’un verde scuro, ma… priva di fiori:
• Non ti preoccupare, vedrai! A Natale avremo dei bellissimi fiori, simili alle rose, ma resistenti al freddo e alla neve!
• Mamma, ma allora sono dei bucaneve!
• No, non è una pianta di bucaneve. È una rosa di Natale…
E infatti, nel periodo di Natale, erano sbocciati alcuni fiori stupendi, bellissimi: bianchi come la neve, simili alle rose, ma che… rose non erano!
Contentissimo, il piccolo corse a chiamare gli amici e, naturalmente, ebbe anche lui il suo momento di gloria, con applausi e congratulazioni!
Il libro non riportava una fotografia del “fiore misterioso”, ma un semplice disegno: chissà com’era una Rosa di Natale!
All’epoca, a casa non avevamo l’enciclopedia, a scuola non avevo trovato un testo che riportasse qualcosa riguardo il mio “fiore del mistero”, non avevo accesso ad alcuna biblioteca, internet era di là da venire… e così mi rimase la curiosità!
Per tanto tempo!
Anni dopo, in un negozio di fiori, mi fermai a guardare una composizione di piante dalle grandi foglie di colore verde scuro e dai fiori candidi e una commessa mi disse:
• Se vuole fare un regalo, questa può essere un’idea! La regala così come la vede e, quando sfiorisce, si può mettere in un vaso più grande o in terra: rifiorirà anche l’anno prossimo, e anche negli anni successivi! La rosa di Natale è una pianta piuttosto resistente…
La Rosa di Natale. L’Helleborus niger! Ecco risolto il mistero!
Il mio studio è dotato di un bel terrazzo, sul quale mi piace mettere le piante più diverse: dal papiro ai ciclamini, dalle piante grasse alla menta, tutte trovano il loro posticino!
Qualche anno fa, durante l’inverno, pensai di rallegrarlo un po’ con un paio di vasi di Helleborus niger: i fiori mi tennero compagnia per diverse settimane e, da ultimo, quando ormai c’erano soltanto le foglie, portai a casa le piante, mettendole a dimora nella mia “aiuola speciale”, quella dedicata alle piante velenose. Armata di zappetta, mentre scavavo, interravo rizoma e radici e toglievo foglie secche, non riuscivo a non pensare al brano letto tanti anni prima sul mio Libro di Lettura e al bambino che aveva trapiantato la rosa di Natale…
L’elleboro è rifiorito: ogni anno, nel periodo invernale, quando tutti gli altri fiori del mio giardinetto dormono sotto terra, pronti a sfidare il vento marzolino (l’anemone Pulsatilla) o il sole dell’estate (gli alchechengi e le “belle di notte”), Helleborus niger mi regala il suo candido splendore. Una vera festa per gli occhi… soprattutto da quando gli ho portato a casa un amico, Helleborus orientalis, i cui fiori di colore porpora scuro spiccano qua e là.
In un passato non troppo lontano, solamente gli erboristi/fitoterapeuti più esperti osavano prescrivere l’elleboro come “pianta medicinale”.
Ora, la cosa è assolutamente vietata.
Già, la pianta è tossica. Tutta la pianta. Dalle nere radici (ecco da dove arriva l’appellativo di “niger”, “nero”!) ai candidi fiori. Dalle lussureggianti foglie verdi-verdissime ai piccoli semi.
È questo il motivo per cui, come fitoterapeuta operante nel XXI secolo, non posso nemmeno pensare di usarla, ma visto ch’è una pianta che mi piace… nulla mi vieta di parlarne!
Helleborus niger. Botanica, simbologia, storie, miti e leggende
Alto all’incirca 30 cm, Helleborus niger ha foglie di colore verde scuro, divise in segmenti ovali, che rendono il gruppo di foglie simile alle dita d’una mano, porta larghi fiori bianchi, simili a piattini pieni di stami del color dell’oro.
Dapprima bianco, il fiore diventa poi rosa e – infine – verde. Questa pianta cresce soprattutto in montagna, su terreni calcarei, nei boschi e nelle foreste; può crescere anche nei prati. Necessita di un terreno ben drenato, parzialmente ombreggiato. Quando divise, le piante – in giardino – soffrono e si riprendono molto lentamente; l’elleboro produce radici fibrose, che penetrano profondamente nel terreno, inibendo la crescita dei vegetali vicini (i giardinieri le considerano per questo “piante voraci”).
Il “niger” – nero in latino – è dovuto al colore del rizoma e delle radici, come già detto, mentre “helleborus” deriva direttamente dal greco e significa “orientale”; infatti, la pianta è originaria dell’Europa Centrale, pur crescendo anche nel Nord degli Stati Uniti e in Canada.
Il nome “Rosa di Natale” si riferisce invece al fatto che i fiori di questa pianta si aprono in pieno inverno.
Una tradizione medievale fa risalire l‘origine di questa pianta proprio alla nascita di Gesù: si dice, infatti, che una giovane ragazza accompagnasse i pastori in visita alla stalla del Bambino e che, non avendo doni da portarGli, piangesse disperatamente. Un Angelo, vedendo il suo dispiacere, toccò la fredda terra invernale, facendo apparire la Rosa di Natale: con grande gioia, quindi, la ragazza poté raccogliere e offrire il fiore, che diventò l’emblema della Natività.
L’elleboro è inoltre sacro a Santa Agnese, patrona delle giovani vergini, e per questo – in alcune zone della Gran Bretagna – viene chiamato anche Fiore di Sant’Agnese.
L’elleboro è uno dei “quattro veleni classici”: sembra che Attalo III – l’ultimo re di Pergamo, morto nel 134 a.C. – ne abbia usati tre: giusquiamo (Hyoscyamus niger), cicuta (Conium maculatum) ed elleboro per liberarsi dei suoi “amici”. Il quarto veleno è l’aconito (Aconitum napellus).
Secondo Plinio – 23-79 d.C. – in un’epoca antecedente il 1400 a.C., questa pianta veniva utilizzata per trattare i disturbi mentali: si pensava, infatti, che l’elleboro avesse la capacità di far espellere la “bile nera”, causa di follia, secondo la Teoria dei Quattro Umori.
Pare che, prima di accingersi al loro intenso lavoro mentale, i filosofi Greci bevessero un infuso di quest’erba, mentre gli antichi Romani la usavano in caso di epilessia e di melancolia.
Secondo Paracelso, aveva il potere di “ringiovanire” se assunta dopo i sessant’anni; la consigliava anche per la podagra, l’epilessia, l’emorragia cerebrale e l’idropisia.
Considerazione personale: Paracelso o non Paracelso, mi sa che se i prescrittori e i preparatori sbagliavano anche di poco-pochissimo la dose, i disgraziati che prendevano la pozione avevano buone probabilità di aggiudicarsi l’”eterna giovinezza”, andando direttamente all’altro mondo!
Nel Medioevo, si preparava un infuso di radice per curare l’isteria, l’epilessia, la melancolia, le irregolarità mestruali, la stipsi, le malattie del fegato, l’ittero, l’idropisia, la gotta e i reumatismi.
Gli antichi Greci usavano l’elleboro soprattutto per curare i disordini mentali – la follia, in primo luogo – e chiamavano questo trattamento “melampode”, da Melampo, il famoso indovino e guaritore greco.
Melampo – letteralmente: “piede nero” – aveva salvato alcuni serpenti e li aveva curati fino a farli diventare adulti.
Per ringraziarlo della sua benevolenza, i serpenti leccarono le sue orecchie, regalandogli il dono della divinazione e la capacità di comprendere il linguaggio degli uccelli e degli animali in genere, in modo da poter poi riferire le loro parole agli uomini.
Con il latte di una capra che aveva mangiato foglie di elleboro, Melampo curò le figlie del re di Argo, Proteo, che – affette da follia – erravano per il paese strappandosi le vesti.
L’elleboro è stato considerato per secoli un rimedio per l’insanità mentale e un controincantesimo per le fatture; pezzi di radice venivano infilati in un taglio praticato sulla cute dell’orecchio o del mento di un animale malato con l’intento di tenere lontano l’influsso del diavolo: venivano rimossi dopo 24 ore, ritenendo che l’animale fosse stato curato.
Trattandosi di una pianta altamente velenosa, con effetti a carico del cuore, i raccoglitori dei tempi antichi adottavano delle contromisure: tracciavano un cerchio con una spada intorno alla pianta e poi ne estraevano le radici cantando lodi e preghiere ad Apollo. Prestavano – nello stesso tempo – attenzione all’eventuale presenza d’un’aquila nelle vicinanze, cosa che avrebbe significato la morte del raccoglitore stesso entro l’anno.
Piantate vicino alle porte delle case, le Rose di Natale dovrebbero tenere lontano il Diavolo e i suoi influssi malefici.
Nel Medioevo, si riteneva che i rospi – spesso ritrovati sotto le piante di elleboro – traessero da queste la loro tossicità. In effetti, l’ellebrina isolata dalle piante è chimicamente identica al bufadienolide, isolato dai rospi.
Secondo un’altra leggenda, si può diventare invisibili spargendo dell’elleboro nero polverizzato davanti al proprio piede quando si cammina.
Helleborus niger. Uso attuale
Non più usata come pianta medicinale, è una pianta ornamentale di grande effetto, che sopravvive bene quando trapiantata in piena terra.
Ma…. non è questo il suo unico uso attuale possibile!
Infatti, pur essendone vietata-vietatissima la prescrizione sotto forma di “fitoterapico”, è ancora molto usata come “omeopatico”.
Ne approfitto per ricordare che:
• in FITOTERAPIA si usano “le piante” (erbe, fiori, foglie, gemme, radici, cortecce e quant’altro)
• nel prodotto “fito” – sia esso sotto forma di preparato per decotto/tisana, di tintura madre, di macerato glicerico e di estratto secco, il principio attivo è in dose ponderale e un’eventuale analisi chimico-fisica “tradizionale” DEVE rilevare la presenza delle sostanze evidenziabili nelle diverse parti della pianta
• i prodotti vengono prescritti in base agli stessi criteri della Medicina Allopatica (per la febbre do un antipiretico/febbrifugo, per le coliche do un antispastico…)
• in OMEOPATIA si usano non solo “le piante” (in toto o qualche loro parte specifica), ma anche animali, derivati di secrezioni diverse (normalmente chiamate “nosodi”), sostanze chimiche diverse (dal sale marino allo zinco passando per la soda caustica e l’ammoniaca)
• i prodotti “omeo” sono più o meno diluiti (oltre che succussi) e, dopo la 12a diluizione centesimale, le usuali analisi fisico-chimiche non sono più in grado di rilevare traccia della sostanza di partenza
• i rimedi omeopatici vengono prescritti in base alle Leggi di Similitudine.
Ogni tanto, qualcuno mi chiede: “Cosa posso prendere per il mal di testa? Cosa posso prendere per il mal di stomaco?…”.
Personalmente, mi sono formata come omeopata alla Scuola di Verona: Omeopatia Classica, Unicista, che prevede la ricerca del “simillimum” – vale a dire del Rimedio, con la “R” maiuscola!, in grado di cambiare la vita del Paziente.
E l’Omeopatia Unicista, che cerca di associare la Persona al Rimedio, non prevede di “curare la malattia, bensì la Persona che, nel suo insieme, è anche portatrice di quella malattia”!
…quindi… come tutti i rimedi omeopatici, anche Helleborus niger va prescritto solo dopo accurata anamnesi e altrettanto accurata repertorizzazione!!!
BIBLIOGRAFIA:
• Cattabiani Alfredo, Florario – Miti, leggende e simboli di fiori e piante. Arnoldo Mondadori Editor S.P.A. Milano, 1996 – ristampa 2012
• Maderna Erika, Medichesse – la vocazione femminile alla cura. Aboca Edizioni, ristampa 2014.
• Vermeulen Frans. Prisma. Second edition, August 2002.
• …e testi scolastici (mitologia greca…)
Salve complimenti per l’articolo interessantissimo. Ho interrato delle piantine di elleboro Niger a 40 cm da una pianta di bouganville che da qualche tempo non si sta sviluppando più. Leggendo forse è colpa dell’elleboro troppo vicino?
Carissima,
non sono un’esperta ma… penso che sia proprio così! l’elleboro è considerato – secondo quanto ho letto – una “pianta avida”, che tende a “rubare” tutto il nutrimento disponibile nel terreno. Nel mio microscopico giardino, vicino alle piante di elleboro non cresce manco la gramigna! 😉
un proibitissimo abbraccio