“Vero coraggio non è non avere paura, ma andare avanti nonostante la paura”.
Italia, Anni Settanta. Sono una ragazzina amante dei libri, una lettrice accanita: passo da A.J. Cronin a Giovanni Guareschi, da Pinin Carpi a Giulio Bedeschi. Sono appassionata di Storia: leggo di tutto, ma, in quel periodo, le mie preferenze vanno ai testi che parlano della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, della Ritirata di Russia, dei Campi di Concentramento e dei Dissidenti.
E questa frase del coraggio che nulla ha a che vedere con il non avere paura m’è rimasta nel cuore. Nei libri di Salgari, altro beniamino della mia lontana infanzia, il Corsaro Nero e la Tigre di Mompracem erano descritti come “senza paura”: possibile che la condizione di “avere paura” e quella di “essere coraggiosi” si possano incontrare?
Kiremba, anno 1995. Il Grande Genocidio del Rwanda si è ormai consumato e il Paese è in preda al caos: esecuzioni sommarie, regolamenti di conti “privati” fatti passare per “eliminazioni di pericolosi sovversivi”, stupri – per i quali non si cerca nemmeno una (peraltro inesistente) giustificazione…
Noi – mio marito Roberto, Franco (il nostro bambino) e io – siamo in Burundi, a Kiremba – appunto – che in linea d’aria dista una decina di chilometri dal confine con il Rwanda.
L’anno precedente, quando l’aereo che riportava in patria i Presidenti delle Repubbliche di Rwanda e Burundi è stato abbattuto (vedi anche “Immaculée, gli Occhi del Genocidio”), scatenando il genocidio stesso, i Barundi sono rimasti abbastanza tranquilli.
“Abbastanza”.
Non del tutto.
Anche qui, infatti, la situazione di guerriglia che era iniziata nel giugno del 1993 con l’assassinio del Presidente Ndadaye sta continuando.
Gruppi di militari armati presidiano le strade, i “barrages” (posti di blocco) sono infiniti: durante uno dei nostri viaggi di spostamento fra Kiremba e Bujumbura, la capitale, lungo un percorso di 160 chilometri, ne contiamo 11. Uno ogni 15 chilometri scarsi. E ogni volta bisogna fermarsi, esibire i documenti, spiegare che tipo di merce stiamo trasportando (medicinali, di solito), “offrire spontaneamente” qualche soldo perchè i presidianti possano dissetarsi “comprando un casier de bière”, una cassa di bottiglie di birra.
E ogni volta bisogna perderci un tempo infinito, sperando che siano troppo annoiati per decidere di trattenerci con un’ispezione approfondita del camion e delle merci (sotto i medicinali, infatti, troverebbero le ben più appetibili coperte o i sacchetti di latte in polvere destinati ai miei Mal-nourris, i Bambini Malnutriti).
Ogni località considerata “strategicamente importante” ospita una squadra di soldati: giovani, alti, dotati d’una muscolatura e d’un fisico invidiabili, corrono come gazzelle anche con lo zaino sulle spalle. Non mangiano moltissimo, ma iniziano a bere fin dal mattino e, per quanto la locale birra Primus non abbia una gradazione alcolica importante, nel pomeriggio sono già ubriachi.
Ubriachi fradici.
Con le conseguenze del caso.
Penso sia inutile dire che noialtri non ci mettiamo mai in viaggio oltre le ore 13: in un Paese situato all’Equatore, il sole tramonta sempre intorno alle 18.30 e se il pomeriggio è funestato dai fumi dell’alcool, la notte è popolata da ben altri mostri…
Anche Kiremba è sede di un manipolo di militari, militari che spesso vengono in ospedale.
Vengono in ospedale per… i motivi più svariati.
Perchè hanno la malaria, e devono essere curati.
Perchè non stanno molto bene, e necessitano d’un qualunque esame di laboratorio.
Perchè… a volte arrivano anche per un “giretto” in ospedale: per visitare un parente o un commilitone ricoverato? Per verificare se i palloni Ambu sono stati ripuliti degli scarafaggi che li hanno eletti a loro dimora? Per constatare di persona se i pazienti vengono trattati in maniera adeguata????
Non lo so, ma i risultati di queste “visite” sono devastanti.
Già, quando due-tre militari bardati con la tenuta d’assalto, armati di mitra, con baionetta innestata e bombe mano a rigonfiare le tasche gironzolano per le sale di degenza, i malati entrano in agitazione: febbri che si alzano all’improvviso, crisi d’asma che si scatenano in pazienti perfettamente compensati e richiedono il poco ossigeno che abbiamo a disposizione nelle “bonbonnes”, mamme che strappano le fleboclisi ai bambini e fuggono nei campi che circondano l’ospedale…
Per carità: nessuno s’è mai permesso di toccare i miei Pazienti in ospedale (caso mai, li aspettano al varco, quando vengono dimessi, ma questa… è un’altra storia), ma queste “visite” non sono esattamente “salutari”: dopo l’uscita dei soldati, devo fare il giro con un Infermiere, distribuendo diazepam (meglio noto come Valium) e “buone parole”…
Un vero delirio.
E così, un bel giorno, mi decido: blocco i tre giovanotti mimetico-vestiti con mitra imbracciato davanti al portone d’ingresso e inizio a spiegare loro che NON possono entrare in ospedale con le armi spianate, che esistono le “Convenzioni di Ginevra”, che i miei malati si spaventano…
I tre si grattano la testa perplessi: il mio francese è abbastanza buono, ma il loro… non troppo. Capiscono che non voglio farli entrare e mi rassicurano: nessuno intende far del male ai miei degenti, e che diamine! A quel punto, brinco per il bavero tutto il mio coraggio e, aiutandomi con i gesti, cerco di far comprendere che sarò ben felice di occuparmi del loro problema personalmente se saranno così gentili da entrare in due per volta, lasciando fuori il terzo in compagnia di mitra e baionette…
Affare fatto! Hanno capito e accettato: uno dei soldati afferra le armi ed esce dal portone, mentre gli altri due mi seguono al Laboratoire per farsi fare una goccia spessa (esame atto a individuare i plasmodi della malaria nel sangue). Dopo, mentre aspettano i risultati, uno dei due uscirà consentendo al terzo di entrare…
Nel breve tragitto tra l’ingresso dell’ospedale e il Labo, mi guardo attorno: gli Infermieri sono spariti, i pochi maschi seduti sulle panchine del Pronto Soccorso in attesa d’esser visti si sono volatilizzati, le donne hanno afferrato strettamente i loro bambini e mi seguono con gli occhi, con la paura che si legge nello sguardo.
Nei giorni seguenti, la scena si ripete più e più volte, talvolta anche due volte al giorno. Non demordo: con gente che mi sovrasta di almeno 20 centimetri e mastica poco la lingua francese, mi accanisco a parlare di Ginevra (chi sarà mai questa tizia, sembrano chiedersi…) e delle sue Convenzioni, sottolineando le mie parole con ampi gesti, che lasciano sbigottiti i miei (malcapitati) interlocutori… già, noi Italiani siamo famosi nel mondo per le nostre “abilità gesticolatorie”, ma in queste occasioni do il meglio di me stessa e delle … patrie capacità!
Ogni tanto, càpita anche che qualche soldatino guardi con aria allusiva ora me ora il mitra che imbraccia, ma io proseguo con le mie concioni…. e alla fine i giovanotti, quando necessitano di esami, si presentano in tre: entrano a turno, in due, mentre il terzo resta fuori con l’artiglieria di tutto il trio.
Con aria ammirata, un’Infermiera mi dice: “Docteur, vous êtes une femme très courageuse… Vous n’avez pas peur…” – “Dottoressa, lei è una donna molto coraggiosa, lei non ha paura…”.
No, non è vero: io ho paura. Ho tanta paura: solo gli incoscienti non hanno paura, ma io lo realizzo in quel momento e comprendo il senso profondo d’una frase letta tanti anni prima e rimastami impressa nella memoria:
“Vero coraggio non è non avere paura, ma andare avanti nonostante la paura”
Che dire… GRAZIE. Il messaggio è molto chiaro.
Giulia
Dott.ssa. Inutile dire che mi sono commossa leggendo la sua terribile esperienza in Africa…Dietro queste righe si capiscono molte cose…non riesco a dire altro…Grazie della testimonianza.
un forte abbraccio.
Grazie dott.ssa per questo racconto così profondo e pieno di significato. “vous etes tres courageuse” la pensiamo anche noi da sempre e la stimiamo moltissimo. Un caro saluto. Cindy e Andrea.
grazie Teresa, amica mia
Grazie dott.ssa.
Onore e ammirazione. Fantastica lezione di coraggio e umanità. Molto pertinente…
fantastico
Teresa, mi sono commossa, ho cercato di immaginare come mi sarei comportata in questa situazione… davvero non sò se avessi avuto il tuo coraggio.
La mente umana ha cosi tante voci… poi a volte il coraggio cresce proprio grazie alla paura… come una sorta di “ombra luminosa”.
Grazie di questo documento di vita vera.