Spesso, quando ci sono disordini, guerre e tafferugli, le persone approfittano del caos generale per regolare dei conti personali, talvolta addirittura “familiari”.
È quanto è successo nella famiglia di Josephine.
È l’aprile del 1994, Cyprien Ntaryamira e Juvenal Habyarimana, Presidenti rispettivamente di Burundi e Ruanda, ed alcuni importanti membri dei governi dei due Paesi, si trovano su un unico aereo. All’aeroporto di Kigali, in circostanze non ancora chiarite, il velivolo viene abbattuto da un missile terra-aria.
In Ruanda, si scatena l’inferno: il genocidio che segue, purtroppo, fa parte della nostra Storia recente.
Il Burundi è reduce da un recentissimo massacro, scatenato nell’ottobre del 1993 dall’assassinio di Melchior Ndadaye, il primo Presidente democraticamente eletto nel Paese africano: contrariamente a quanto avviene in Ruanda, quindi, la morte di questo Presidente non dà il via ad un’altra carneficina.
Hutu e Tutsi sono come paralizzati: il Paese precipita nel caos tipico di un vuoto di potere, ma non ci sono uccisioni di massa, non manifeste, almeno.
Qua e là, nel Paese, si registrano attacchi isolati a singoli personaggi o a piccoli gruppi politicamente attivi: è in questo contesto che si compie la tragedia della famiglia di Josephine.
Padre di etnia Hutu e madre Tutsi (o viceversa: la cosa, a questo punto, non è importante): i due non vanno molto d’accordo e, secondo le testimonianze dei vicini, litigano spesso, passando volentieri dalle parole alle percosse.
L’uomo, secondo quanto ricostruito a posteriori, decide di approfittare della situazione di caos generale per sistemare la situazione in maniera definitiva: sotto gli occhi atterriti dei loro figli, uccide la moglie e si dilegua nella “brousse”.
All’epoca, Antoine ha, più o meno, 14-15 anni, ma è malato e si comporta come un bambino molto più piccolo. Jean ha 8-9 anni ed è già un piccolo ometto. Josephine ha 11-12 anni: dopo la morte della madre e la fuga del padre, la ragazzina si trasferisce all’ospedale di Kiremba, dove si offre come “garde-malade”, come assistente – cioè – ai bambini malati.
Poco più che bambina lei stessa, Josephine assiste i piccoli malati dell’ospedale con la speranza d’avere in cambio un pasto giornaliero: è qui, in ospedale, che faccio la sua conoscenza.
Lei ed i suoi fratelli dormono a Cibitoke, la casa-dormitorio in cui alloggiano i parenti dei pazienti dell’ospedale.
Giorno dopo giorno, durante il “giro” in Pediatria, vedo Josephine impegnata nel suo precoce lavoro di garde-malade ed apprezzo questa ragazzina silenziosa e servizievole.
Un giorno, assisto anche ad una sorta di crisi epilettica: non è epilessia vera e propria e, con l’infermiera Domine, ricostruisco la sua storia, giungendo alla conclusione che, più probabilmente, si tratta di una crisi nervosa, dovuta al trauma subìto, crisi che necessiterebbe dell’aiuto d’uno psicologo.
Uno psicologo… In un Paese reduce da un massacro etnico e sull’orlo d’una guerra civile… Niente da fare, ma… ci sarà pure il modo d’aiutare questi sfortunati ragazzini…
Inizia così una sarabanda di tentativi: con mio marito, portiamo Jean ed Antoine all’orfanatrofio di Kirundo, tenuto dalle Suore di Madre Teresa di Calcutta. Pur amati, nutriti e vestiti, si faranno prendere dalla nostalgia per la sorella e scapperanno dopo qualche mese. Affidiamo, invece, Josephine a Suor Giuseppina Cittadini, Superiora delle Suore Operaie di Brescia a Nyamurenza, un paese non lontano dalla nostra Kiremba. Suor Giuseppina, a sua volta, affida la ragazzina ad una consorella burundese, Soeur Janvière Nahimana, che riesce, finalmente, a fare un po’ di chiarezza nella situazione di Josephine. La povera piccola soffre di incubi e di forti cefalee, che le impediscono di frequentare regolarmente la scuola e di studiare: volenterosa e piena di buone intenzioni, non riesce ad apprendere nemmeno poche parole di francese, lingua studiata in tutte le scuole burundesi, che ci consente di comunicare con la popolazione senza imparare il difficilissimo kirundi. A quel punto, Soeur Janvière decide di avviarla al lavoro, in modo che sia almeno in grado di cucinare, di cucire e di allevare dei bimbi “come si deve”.
Quando lasciamo il Burundi per rientrare definitivamente in Italia, Jean ed Antoine hanno raggiunto la sorella a Nyamurenza e vivono sotto la protezione delle Suore Operaie: ci impegniamo ad inviare un piccolo aiuto economico ogni anno, fino a quando i ragazzi saranno adulti ed autosufficienti.
Gli anni sono trascorsi ed i miei tre bambini sono cresciuti: nonostante la sua situazione e la … “pochezza di cervello” (definiamola così!), Antoine si è sposato, lui e sua moglie hanno avuto un paio di bimbi e, alla fine, la malattia ha avuto la meglio, portandoselo via. Anche Jean si è sposato e il suo matrimonio è stato allietato dalla nascita di due bimbe.
Josephine ha avuto una storia che definirei “non positiva” con un uomo che la picchiava: ha trovato il coraggio di lasciarlo e di tornarsene da Soeur Janvière con la sua creatura; ora, la mia piccola garde-malade ha trovato un’altra persona, da cui ha avuto altri due splendidi bambini.
I “miei” ragazzi non hanno mai chiesto nulla, ma quest’anno Soeur Janvière mi ha scritto una lettera, proponendo un “regalo di Natale” per Josephine: una mucca, che potrebbe dare non solo un po’ di latte (le mucche burundesi non sono delle valide produttrici), ma soprattutto il prezioso “fumier”, il concime per il campo dal quale le due famigliole traggono parte del loro sostentamento.
Grazie anche alla generosità di tanti Amici, il denaro è stato raccolto e versato alle Suore Operaie.
Penso che la mucca sia già in arrivo: il denaro, in ogni caso, è già stato trasferito a Bujumbura e Soeur Janvière in persona seguirà l’acquisto!
Foto di Nataliya Vaitkevich in Pexels